Se volete scoprire chi siete veramente dovete cercare situazioni aliene a tutto ciò che finora è stato vissuto come “normale”. Dovete andare fino in fondo, e vi accorgerete che nel degrado c’è una mancanza di pressione che può essere liberatoria.
Parole di Anders Petersen, grande fotografo svedese che per tutta la sua carriera ha vagato per nightclub, carceri, istituti psichiatrici e case di cura in cerca dei suoi soggetti preferiti: prostitute, senzatetto, tossicodipendenti e altri reietti dalla società, fotografati in uno struggente bianco e nero. Senza mai giudicare o compatire, Petersen si sente uno di loro. Con un approccio sincero e fortemente empatico, è come se guardasse il mondo per la prima volta, con lo sguardo puro.
Era la fine degli anni ’60 quando queste immagini irruppero sulla scena internazionale, ed erano tempi in cui i costumi stavano sempre più aprendosi ma in cui c’erano ancora molte resistenze nel parlare di temi quali la sessualità e la violenza. Petersen affronta a viso aperto queste tematiche, sbattendole in faccia a una società ancora troppo perbenista.
Petersen mostra cosa vuol dire vivere da outsider, fuori dalle regole sociali e da ogni convenzione, e come contemporaneamente non ci sia nulla di così “anormale” nella vita di queste persone. Petersen, nato nel 1944, iniziò la sua lunga carriera con il progetto “Café Lehmitz” ambientato in un bar di Amburgo, dove vi fece la sua casa temporanea dal 1967 al 1970. Una delle immagini fu usata da Tom Waits nel 1985 come copertina del suo album “Rain Dogs”. Non ha mai abbandonato il suo stile inconfondibile, anche nei suoi lavori più recenti come Close Distance del 2002 o From Back Home del 2009.

Cerco una relazione forte con le persone che fotografo…
Per lui fotografare è un modo per cercare se stessi, dato che ogni ritratto è una sorta di autoritratto che non deve mostrare solo l’altra persona ma anche svelare qualcosa del fotografo: «Cerco una relazione forte con le persone che fotografo, e questo riguarda i desideri, i sogni, i segreti. Forse anche incubi e paure».
Ogni suo ritratto è molto più che una semplice documentazione, perché contiene qualcosa di impenetrabile e ignoto che racconta le paure e le ossessioni del genere umano. Le sue sono immagini perturbanti che lasciano aperte mille interpretazioni.
Negli anni ’60 Anders Petersen vedrà una fotografia che cambierà la sua vita: l’immagine di un cimitero a Parigi. Nella foto è inverno, ha nevicato, qualcuno deve aver camminato sulla neve lasciando delle orme poco prima dell’arrivo del fotografo.
Era come se i morti fossero risorti dalle loro tombe durante la notte per fare una passeggiata intorno, visitandosi a vicenda. E il fotografo ha scoperto ciò attraverso i passi. Questa esperienza mi ha fatto seriamente interessare a esprimermi in immagini.
Insieme alla capacità di essere in contatto con la propria essenza, è fondamentale quella di entrare in relazione con i propri soggetti, il grado di intimità che si riesce ad instaurare, la capacità anche di perdersi un po’ – ma non troppo. “Bisogna sempre mantenere una certa lucidità, altrimenti si rischia di commettere gravi errori, e tradire cosi la fiducia dei nostri soggetti.”
Petersen non ha problemi a definire la “realtà” come soggettiva e il gesto fotografico come un processo di profonda conoscenza del sé. Anders rifiuta il concetto dell’oggettività fotografica, non ha paura di entrare – metaforicamente – nelle sue immagini, e mostrarsi. Le sue fotografie vanno oltre l’aspetto descrittivo e documentario, diventando degli ibridi fra il sé, e l’altro da sé.
La fotografia quindi come modo di vivere, per cui il processo fotografico diventa uno strumento per la costruzione della propria identità, attraverso il riconoscimento dell’alterità: «conoscere se stesso» è sempre ri-conoscersi attraverso l’altro.
Da vedere, da vivere, Petersen è un vero fotografo dell’anima.
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