
Quando pensiamo ad una casa, la nostra casa, immaginiamo quella legata al sogno della vita, che riveste tutte le personali aspettative accumulate nel tempo, un po’ come la raccolta dei “reperti” dei nostri viaggi, ordinati e conservati nel luogo più sacro dello spazio che viviamo. Pensiamo al nostro ambiente vitale come al luogo dell’immaginario, perfetto, perfettamente congeniato e congeniale a noi, dove tutti gli elementi giustapposti siano proprio lì e non in un’altra parte, prima nello spazio della mente e poi in quello fisico della realtà. Se ci pensiamo bene, però, il nostro vivere non è uno stadio permanente, sempre uguale , fatto di sequenze diapositive, in cui possa regnare una dimensione statica, che colga la bellezza dell’immagine. La nostra casa è un cortometraggio quotidiano, in cui siamo a volte protagonisti a volte scenografia, non è una sequenza di immagini fotografiche. In questi termini, la casa è un luogo a stadi infiniti di evoluzione, mai uguale nel tempo; uno spazio in trasformazione, fedele al nostro essere: uno specchio che riproduce, in forma materiale, la nostra interiorità. Quest’ultima varia, si evolve, a volte regredisce, altre cresce, si sposta, si muove col tempo. Allo stesso modo, lo spazio di ognuno diventa il protagonista della sua stessa dinamica fisica. Pensare ad un luogo infinito è un passo in più, immaginarlo come parte di noi, in continuo ciclo vitale è un’evoluzione. Gli oggetti mutano nel tempo la sagoma della loro forma, il colore, addirittura le posizioni, rispetto a quelle originali, di micro spostamenti, o magari si rimpiccioliscono, ingrandiscono, aumentano, diminuiscono, si trasformano. Oggi uno spazio risulta vuoto, domani potrebbe diventare pieno. Basterebbe pensarlo non finito, ma infinito. Se provassimo ad ingrandire la nostra lente focale per immaginare dimensioni meno contenute, ecco che la casa sarebbe aperta, spaziosa, arieggiata, più e più a lungo assolata. Lo spazio urbano non è, forse, la nostra casa, il luogo di vita quotidiano che calpestiamo, sfioriamo, guardiamo, e “profumiamo”? E’ l’alcova del nostro immaginario di mondo, la raccolta di un immaginario collettivo. E’ il sogno di un mondo perfetto in cui vorremmo gravitare, fatto di verde , tanto verde, in mezzo al grigio un po’ colorato. Un contesto in cui il verde è verde ed è anche ordinato, perché pensiamo che tutte quelle geometrie, disegnate in terra incolta, ci sembrino presuntuose ed irriverenti. A dispetto di ciò, muovo uno spunto di riflessione, facendo un passo oltre, verso l’ignoto, al di là possibile, ma non impossibile; vorrei chiamare questi spazi di casa, estesi ed aperti, Spazi in movimento, citando la celebre definizione “Giardini in movimento; il Terzo paesaggio” del famoso Paesaggista francese Gille Clèment che ha rivoluzionato “l’idea classica di giardino, ponendo l’attenzione sulla ‘friche’, ovvero l’incolto”. Ho riflettuto a lungo su un’idea di spazio che abbia tale antitesi immaginativa ed ipotesi di fattibilità. Credo che sia possibile intravvedere uno stadio infinito dei luoghi su grande scala; quello dei luoghi verdi in cui non regni una regola definita, a priori e fissa, od una modalità esecutiva e di sviluppo precisa, se non quella della spontaneità indotta nel tempo. Mi piace immaginare che in uno spazio urbano, costellato da figure geometriche segnate, su cui gli edifici circostanti proiettino le loro geometrie d’ombra, lo sviluppo del verde sia naturale e naturalmente sviluppato, senza un determinante e né deterministico intervento umano, se non quello che possa prevenire lo stato di degrado. Proviamo a pensare ad un’estetica di questi spazi di risulta che non sia convenzionale, ma spontanea e comunque vivibile. Una dimensione avanzata in cui si sviluppi il concetto di un nuovo riuso dello spazio, proprio perché non è definito, ma è una proposta; non è una risposta di spazio, ma è suscitare una domanda per ottenere risposte, differenti e distribuite nel tempo. Una dimensione futuristica del verde in cui esso stesso possa proliferare nella sua ricca biodiversità, definendo spontaneamente e con sensibile contributo umano, schemi di organizzazione riconoscibili in ogni stagione. Porzioni di questi, per esempio, potrebbero esprimersi autonomamente, come simbolo estetico di natura incontrollata, di coronamento; una sorta di decalogo spontaneo del verde, un fitto campionario naturale. Il significato di questo tipo di approccio non canonico e lontano allo spirito comune, è legato alla possibilità di offrire il senso del tempo allo spazio, di introdurre lo spazio-tempo come “palcoscenico” di un fenomeno fisico, offrendo ad esso qualità estetica, delicatezza, semi-permanenza, trasformazione. Attribuire allo spazio il senso del tempo. Offrire al tempo una permeabilità nello spazio. Assisteremmo ad evoluzioni del verde, a prospettive, via via, differenti, a trasformazioni dei luoghi, in archi temporali più o meno ristretti o amplificati, ad abbandoni che non sono abbandono e né degrado, ad una natura che produce “incolto” perché s’impossessa di uno spazio possibile, trasformandolo in maniera possibile, grazie ad un lieve contributo della mano dell’uomo, ad una natura che produce vero incontro, incontro anche con sé stessi, più intimistico. Un luogo infinito che parli di mondi fantastici ed inconsci, metafora del nostro interiore, dalla nostra casa. Potremmo rischiare di sentirci così veramente e finalmente accolti.
12/03/2015
Alessandra Fanì